Nel disturbo bipolare è alterata la trascrizione sinaptica e neuroimmunitaria

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 26 marzo 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Areteo, un medico della Cappadocia, un regno dell’Asia Minore che faceva parte dell’Impero Romano, verso la fine del primo secolo d.C.[1] descrisse pazienti affetti da un male della psiche che li portava periodicamente all’abbattimento e all’esaltazione; le sue descrizioni della sintomatologia sono così precise, accurate e dettagliate che Silvano Arieti, nel suo celebre trattato di psichiatria dell’American Psychiatric Association, le citava senza ombra di dubbio come il primo resoconto medico della psicosi maniaco-depressiva della storia. Areteo riconobbe l’esistenza di un rapporto tra le due fasi di quello che oggi chiamiamo disturbo bipolare, e le descrisse come sintomatologia della stessa malattia mentale. Osservò che in età giovanile i pazienti sono più inclini alle manifestazioni di eccitazione, con rapidità di pensiero, azione ed eloquio, mentre nell’età senile tendono maggiormente alla depressione, che all’epoca si attribuiva, seguendo Ippocrate, ad eccesso dell’umore nero, melania chole, da cui “melancolia”, diventato poi in italiano malinconia. Areteo sosteneva che la mania non è sempre una reazione alla fase depressiva, ma può aversi come espressione propria della malattia. Ecco cosa scriveva in proposito Silvano Arieti nel 1966: “Sembra quindi che Areteo abbia anticipato di almeno diciassette secoli Emil Kraepelin. In un certo senso andò ancora più lontano di lui, perché ritenne che le remissioni spontanee non dessero affidamento. Il carattere intermittente della malattia gli era ben chiaro. Descrisse anche molto bene gli atteggiamenti religiosi, con il senso di colpa e di autosacrificio del melanconico e il comportamento gaio e iperattivo del maniacale. Riferì come un grave caso di melanconia, su cui molti medici erano pessimisti, fosse guarito completamente dopo che il paziente si era innamorato”[2].

Dopo il lungo periodo di focalizzazione sugli effetti dell’ambiente, da parte della psichiatria della seconda metà del Novecento, che chiamava “reazioni” tutti i disturbi psichiatrici, distinguendoli in reazioni maggiori (psicosi) e reazioni minori (nevrosi), oggi siamo ritornati a supporre come Areteo dei fenomeni intrinseci del cervello all’origine del disturbo bipolare e, sebbene numerose varianti geniche siano state associate alla possibilità di sviluppare malattia, ancora poco si conosce dei processi e dei meccanismi che determinano queste oscillazioni del regime complessivo delle attività cerebrali alla base di ciò che chiamiamo “mente”.

Soprattutto, si sa ancora pochissimo di come l’espressione genica sia alterata nel disturbo bipolare, e se e come i cosiddetti “alleli di rischio” incidano sulle alterazioni dell’espressione genica. Peter P. Zandi e dodici colleghi hanno realizzato uno studio su trascrittomi ottenuti da campioni di tessuto nervoso prelevato post-mortem da 295 cervelli di pazienti e controlli neurotipici, ottenendo risultati rilevanti.

(Zandi P. P. et al., Amygdala and anterior cingulate transcriptomes from individuals with bipolar disorder reveal downregulated neuroimmune and synaptic pathways. Nature Neuroscience 25, 381-389, 2022).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Psychiatry and Behavioral Science, Johns Hopkins School of Medicine, Baltimore, Maryland (USA); Department of Mental Health, Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Baltimore, Maryland (USA); The Lieber Institute for Brain Development, Baltimore, Maryland (USA); Center for Computational Biology, Johns Hopkins, Baltimore, Maryland (USA); The National Hearth, Lung and Blood Institute, the National Institutes of Health (NIH), Bethesda, Maryland (USA); McKusick-Nathans Institute of Genetic Medicine, Johns Hopkins School of Medicine, Baltimore, Maryland (USA); Department of Neurology, Johns Hopkins School of Medicine, Baltimore, Maryland (USA).

Nei cenni storici sul disturbo bipolare, in quasi tutti i manuali di psichiatria, si fa risalire allo psichiatra francese Falret (1851) la prima descrizione moderna, in cui si sottolineano i caratteri di intermittenza e circolarità. Il tentativo di Kahlbaum di farla rientrare nella sua nuova concezione nosografica – che definiva vesania le psicosi – come due stati alterni di vesania tipica, non ebbe successo. Kraepelin, influenzato da Falret e Baillarger, studiò a lungo il disturbo e coniò la denominazione di follia maniaco-depressiva, che incluse solo nell’edizione del 1899 del suo celebre trattato (Lehrbuch der Psychiatrie)[3].

Secondo questa tradizionale ricostruzione, dopo gli studi di Areteo il disturbo bipolare è scomparso dalla cultura medica e dalla coscienza collettiva, per poi riapparire nell’Ottocento. In realtà, questa visione un po’ superficiale non tiene conto del fatto che prima del diciannovesimo secolo non esistevano gli psichiatri, e la psichiatria quale branca specialistica della medicina, e dunque per molti secoli la considerazione dei disturbi mentali come malattie era lasciata alla discrezione del singolo medico, che al riguardo non aveva studiato una specifica diagnostica e terapeutica. Per secoli, infatti, le osservazioni mediche sui casi psicopatologici costituivano più una curiosità culturale che materia di insegnamento. Dunque, per tutte le sindromi psichiatriche vale che non è possibile conoscere le tradizioni tramandate oralmente o ereditando scritti monografici, in assenza di una vera nosografia scientifica, quando molte manifestazioni erano ricondotte a “spiriti insani” sul modello della possessione demoniaca.

D’altra parte, cercando con cura tra i documenti del passato, come fece Cameron per redigere il capitolo sulle psicosi funzionali nel trattato di Hunt sui disturbi della personalità e del comportamento (Vol. II, Ronald, New York 1944)[4], si trova una descrizione di Bonet, che risale al 1684, in cui già si caratterizza un’intermittenza con alternanza di eccitazione e depressione, e poi altri due resoconti del bipolarismo, in uno scritto di Schacht del 1747 e in uno di Herschel del 1768.

In ogni caso, oggi il disturbo bipolare, nelle sue forme cliniche tipiche, è considerato un’entità nosografica ben definita e concettualmente contrapposta alle psicosi schizofreniche, al punto che per decenni la stessa ricerca delle “varianti geniche di rischio” ha seguito una separazione dicotomica tra disturbi affettivi decorrenti con alterazione del tono dell’umore (depressione, disturbo bipolare, crisi di eccitazione maniacale isolate, ecc.) e psicosi caratterizzate precipuamente da destrutturazione della personalità e del pensiero con prevalenza di deliri (paranoia), deliri e allucinazioni (schizofrenia). Nel tempo è parso evidente che la netta differenza clinica tra tipologie di pazienti non ha un diretto equivalente in due diverse categorie di geni. Si è compresa la necessità di colmare il vuoto esistente tra genetica e clinica: uno dei mezzi più seguiti è la ricerca sugli endofenotipi cerebrali.

Esistono studi genetici finalizzati all’individuazione delle basi molecolari della familiarità per le psicosi, i cui risultati insinuano non pochi dubbi sul valore della classificazione clinica corrente dei disturbi psichiatrici; tuttavia, in assenza di criteri di certezza per definire e delimitare la significatività di tali risultati, continuiamo ad adottare le categorie basate sulla sintomatologia quali “caselle nosografiche” entro cui raccogliere i dati ottenuti mediante lo studio molecolare, cellulare e sistemico dei disturbi psichiatrici.

Lo studio di Peter P. Zandi, Thomas M. Hyde e colleghi è stato condotto su un totale di 511 campioni di tessuto nervoso cerebrale prelevato durante esame necroscopico autoptico da 295 cervelli di pazienti affetti da disturbo bipolare, clinicamente diagnosticato secondo i criteri correnti, e da persone decedute senza alcuna manifestazione clinica di patologia neurologica o psichiatrica. I campioni sono stati prelevati, in base alla significatività comprovata e confermata da numerosi studi precedenti, dalla corteccia del giro del cingolo nella porzione subgenicolata e dall’amigdala. Dalle cellule di tali campioni sono stati estratti i trascrittomi per studiare 1) le differenze di espressione genica tra casi e controlli e 2) gli effetti trascrizionali delle varianti geniche associate al disturbo bipolare.

L’accurata analisi ha rivelato 2 moduli co-espressi associati alle variazioni trascrizionali presenti nel cervello degli affetti dal disturbo con oscillazione dell’umore: a) il primo modulo notevolmente ricco di geni immunitari e infiammatori; b) il secondo modulo ricco di geni associati alla membrana post-sinaptica.

Oltre il 50% dei loci significativi per il disturbo bipolare nell’intero genoma conteneva espressioni quantitative significative (eQTL, da expression quantitative trait loci), e tali dati convergevano su vari singoli geni, inclusi SCN2A e GRIN2A.

Nel complesso, quanto emerso dall’analisi trascrittomica di corteccia cingolata e amigdala, per i cui dati analitici si rimanda alla lettura del testo integrale dello studio originale, implica in modo evidente specifici geni e varie specifiche vie molecolari nella patologia cerebrale all’origine delle manifestazioni cliniche che chiamiamo disturbo bipolare.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-26 marzo 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Secondo Zilboorg e Cumston, altri autori lo collocano già nel secondo secolo d.C.; secondo le notizie più antiche Areteo visse prevalentemente a Roma, nella capitale dell’impero.

[2] Silvano Arieti (editor-in-chief), Manuale di Psichiatria (in 3 volumi), Vol. I, p. 585, Boringhieri, Torino 1985.

[3] Nell’ottava edizione, quella del 1913, sviluppò completamente il suo pensiero su questa “psicosi periodica”.

[4] Cfr. Giuseppe Perrella, Il disturbo bipolare nella storia e nell’attualità, p. 2, (relazione seminariale) BM&L-Italia, Firenze 2005.